Johan Cruijff, dal mito del Pelè bianco
alle troppe sigarette del Profeta del Gol

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di Alvaro Moretti
E ti ricordo ancora... in quel manifestino che fiammava i colori della pellicola a 35 millimetri: ti ricordo, soprattutto, nel mito di un film che per l'epoca era coraggioso e diffiicile da fare. Un film italiano, girato (da regista) da una voce radiofonica (ma con che gusto musicale, artististico, pittorico, filmico) come quella di Sandro Ciotti: Il profeta del Gol. Johan Cruijff, oltre la definizione data da Giovanni (Gianni) Brera fu Carlo di Pelè Bianco, è stato soprattutto e per sempre profeta del gol. Quando giocava, dalle giovanili orlandesi nella fucina incredibile e imperitura dell'Ajax fino al mito catalano di un generale straniero impalmato imperatore dal Barcellona nella Regione-Stato più indipendentista di Spagna. Quando allenava i blaugrana. Johan Crujff, o Cruijff come l'olandese provenienza richiederebbe, se n'è andato come era facile prevedere: combatteva, ora, un cancro maledetto figlio, dopo le enormi sofferenze cardiache, del suo secondo amore: è stato inventore di un calcio nuovo che ha trovato esteti e seguaci con appetiti da cannibale nel gioco offensivo del Barcellona di questi ultimi venti anni e ha amato tantissimo il calcio e il pallone; ha amato per tanto tempo (tutto sottratto ad una vecchiaia meritata e interessante) le sigarette. Se ne è pentito tardi, chiudendo la sua vita di personaggio contocorrente per niente comodo, facendo il testimonial anti-fumo.
Il suo contributo forte è stato però nel mito del cambiamento imposto dal "suo" Ajax, vincente, e dalla sua Olanda splendida carneade arancione spuntata a sfiorare trofei durante l'epopea del Profeta, ma soprattutto a mostrare tesi rivoluzionarie.
 


Di suo, nel calcio totale pensato da Rinus Michels per Ajax e Olanda, Cruyff ci mise il genio e una capacità agonostica che mai s'era vista fino agli anni Settanta in quello che si potrebbe indicare come un 9 e mezzo: il paragone tecnico - personalmente - lo faccio con Sandrino Mazzola; oggi forse ci potrebbe stare il paragone con Totti. Classe e gamba, destrezza e genio unito con lo spirito pratico degli olandesi. Squadre, le sue, sempre votate all'attacco ed ecco spiegati i 400 gol in circa 700 partite, tra Ajax, Barcellona, Feyenoord (fine carriera), Los Angels Aztecs e Washington Diplomats (fu pioniere negli Usa con Chinaglia, Pelè e il gemello Neeskens della Nasl), ma anche le nazionali. Sì, perché si fa fatica a incasellare Johan nella casella "olandese": Cruyff è stato simbolo anti-madridista (e anti-franchista) della Catalogna di cui vestì i colori giallorossi della nazionale per ben due volte. E proprio nella città di Gaudì ha ricevuto le stimmate del guru.
La differenza di quella rivoluzione da lui guidata: via i numeri tradizionali che simboleggiavano la stasi di ruoli predefiniti e assegnati, lui è sempre stato il numero 14 (il portiere olandese ai mondiali, Jongbloed stupì il mondo con il numero 8). L'attaccante rientra e pressa, i difensori spingono sulle fasce, ma anche al centro e si trasformano in centrocampisti o ali vere e proprie: il pressing richiede preparazione fisica e studio di situazioni tattiche da altri sport (pallacanestro e pallamano, ma anche atletica leggera per quanto riguarda la preparazione fisica).
Il calciatore aveva vinto moltissimo in Olanda: 9 campionati, ma soprattutto tre Coppe dei Campioni, portando il club più glorioso di un piccolo paese come i Paesi Bassi al vertice del calcio mondiale: con un gioco rivoluzionario fatto di marcature a zona, di tattica del fuorigioco che "accorciava" il campo e costringeva tutti a correre di più, fatto di sovrapposizioni e schiramento in linea, oltrre che di portieri "volanti" chiamati spesso a fare gli estremi difensori cancellando via via dal gioco la figura del "libero" difensore estremo simbolo dal calcio all'italiana che aveva dominato gli anni Sessanta con l'Inter di Herrera e il Milan del Paron Rocco.
Proprio Johan, con senso del mercato e dei soldi tipico degli olandesi, è stato forse il primo grande manager di se stesso che il calcio europeo ha conosciuto: provocatore di sponsor, cercatore di ingaggi dorati. Prima di Bosman, un rivoluzionario anche da questo punto di vista.  
Cruyff quella rivoluzione la portò a compimento, dopo i tre palloni d'oro individuali, a Barcellona dove come calciatore dovette vivere una fase assai simile a quella vissuta da Totti come atleta simbolo di una "nazione" calcistica: un solo titolo in maglia blaugrana, nel 1974, quando in Italia si affermava la piccola rivoluzione tattica (all'olandese si diceva, appunto) della Lazio di Maestrelli e Chinaglia.
In quel calcio fatto di basettoni e calzettoni abbassati, il film di Ciotti con le testimonianze di Facchetti e Mazzola raccontava l'evoluzione di qualcosa che negli anni 80 e 90 avremmo capito tutti.
Cruyff, con carattere forte e dominante, convinse il popolo blaugrana che la strada da seguire era proprio quella della coniugazione del concetto di calcio totale, di gioco offensivo con la necessità di fare tutto ciò con giocatori ai massimi livelli mondiali. IL successo e le coppe dei campioni arrivarono con gente come Romario e Koeman. Ma quel mix che doveva essere assolutamente culè (il soprannome che i tifosi del Barça si sono dati orgogliosamente perché nei giorni di pienone nel piccolo stadio di Carre de Paris, non l'attuale Camp Nou, arrampicati sul muro di cinta mostravano le terga ai passanti): e allora ecco nascere il mito della Masia, il settore giovanile autoctono, dove si è catalognizzato anche Messi, il tardo ma eccezionale epigono di Johan. Ed ecco Guardiola e Luis Enrique. Il segno di Cruyff resterà, dunque, nella creazione di un modello nel quale lui è stato - anche negli anni passati all'opposizione filosofica del presidente di turno - il guru dal quale pendeva l'opinione pubblica catalana.
Abbiamo sempre preferito la definizione che diede Ciotti, nel suo film, perché quella data da Brera era figlia di un paragone legittimo e lusinghiero ma che costringeva Cruyff negli schemi di un calcio - quello breriano - in cui si cantava l'individualità e il difensivismo.
Di lui si possono cantare le grandi vittorie e le enormi sconfitte, come il ko nella finale mondiale del 1974 contro la Germania solida, pragmatica, breriana di Beckenbauer (una mezzala ridotta a fare il miglior libero del mondo e forse della storia). O da allenatore la clamorosa zuppa di gol incassati nella finale di Champions di Atene per presunzione dal Milan di Capello, sempre a zona, ma ormai votato al contropiede di Savicevic ma imperniato - soprattutto - sulla Maginot tutta italiana Tassotti-Baresi-Costacurta-Maldini. Lui e le sue squadre simbolo hanno chiuso l'epopea del catenaccio e aperto le porte d'Europa e di Spagna, poi del mondo ad un modello che attualmente è inarrivabile. E' il modello blaugrana, con le tinte arancio importate in Catalogna dal povero figlio di una famiglia umile che accettò di giocare nell'Ajax dopo aver avuto la promessa che la mamma vedova sarebbe potuta essere inserviente nel club. Il matrimonio con Danny Coster, fotomodella e figlia di uno dei più grandi mercanti di diamanti del mondo, è solo l'ultimo dei segni del destino che vogliamo raccontare: il papà di Danny diventerà il suo agente, l'agente di una gemma calcistica che può oggi che si consegna al mito assoluto mettersi su un podio con Pelè, Maradona (che non riuscì ad esserne erede in maglia blaugrana) e Di Stefano. Con caratteristiche da uomo di calcio globale e - letteralmente - filosofo o profeta che gli altri tre non possono vantare.
 
Ultimo aggiornamento: Venerdì 25 Marzo 2016, 16:29

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